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Overlord [Recensione]

Non mira all’originalità Overlord, bensì all’intrattenimento. Forse ci si muove su uno sfondo storico rischioso, ma il contenuto non è nemmeno tanto banale.

id., USA, 2018  di Julius Avery con Jovan Adepo, Wyatt Russell, Mathilde Ollivier, Pilou Asbæk, John Magaro, Iain De Caestecker, Dominic Applewhite, Bokeem Woodbine

Ogni tanto fa capoccella un horror di serie B dotato di un buono spunto, magari apertamente derivativo (d’altronde, quando produce J.J. Abrams…) ma perlomeno adeguatamente realizzato. Nel caso specifico, se si supera la remora di fondo (una dolorosa rappresentazione storico-bellica che prende una direzione smaccatamente fantasiosa), nello script di Billy Ray si possono apprezzare ritmo incalzante, tensione crescente e l’allegoria solo parzialmente dozzinale della missione d’una pattuglia di parà statunitensi calati nello scenario infernale della costa francese poco prima del D-Day.

In particolare il soldato Boyce (Adepo) e il caporale Ford (Russell) scoprono che i nazisti compiono aberranti esperimenti sugli abitanti d’un villaggio per creare dei combattenti invincibili. Ospita gli eroi una ragazza del luogo, Chloé (Ollivier), decisa a proteggere il fratellino (il piccolo Gianny Taufer dimostra già del talento); li ostacola il coriaceo ufficiale Wafner (Asbæk).

Facile, si diceva, trovare agganci a noti film di guerra (spaziando da Spielberg a Tarantino) o del brivido (gli zombie movies, benché qui i morti viventi siano d’altra categoria). Però si deve concedere al regista Avery (alla sua opera seconda) la capacità di andare fino in fondo, soprattutto da quando il plot svolta.

Superati con ottimismo (e una modernità che non nuoce) conflitti razziali e barriere linguistiche per concentrarsi sul gioco di squadra dei protagonisti. E senza bisogno di grandi nomi: l’unico attore un po’ noto è Bokeem Woodbine, presente all’inizio.

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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