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Recensione: Power Rangers

id., USA/Canada, 2017  di Dean Israelite con Dacre Montgomery, Naomi Scott, RJ Cyler, Becky G., Ludi Lin, Elizabeth Banks, Bryan Cranston, David Denman

Serie tv, giocattoli, film per il grande (nel 1995) e per il piccolo (nel 1997) schermo: i Power Rangers della Saban Entertainment sono tuttora inarrestabili. Eppure, a guardarli sembrano solo teenagers in caschi e tute da motociclista colorate. Ma il punto sta proprio nel fatto che i supereroi in questione – potenziati da pietre aliene e predestinati da milioni di anni – sono adolescenti con i quali un pubblico di coetanei (il più redditizio) può identificarsi. Perciò, ecco a noi un non molto brillante (a tratti perfino serioso) aggiornamento a cura di Neal Israelite, che vede alcuni disadattati in punizione, sul modello – dichiarato – di Breakfast Club, Jason, Kimberly e Billy (Dacre Montgomery, Naomi Scott e RJ Cyler), legare con due emarginati, Zack e Trini (Becky G., di solito cantante, e Ludi Lin), e scoprire – forzatamente – i preziosi e antichissimi minerali che, previo allenamento con il robot Alpha 5 (conosciuto successivamente), trasformeranno le loro vite e li porteranno a difendere il pianeta (con aiuti meccanici non indifferenti) dalle avide mire della megera assetata d’oro Rita Ripulsa. Quest’ultima altri non è che la Banks, pesantemente truccata come l’ulteriore pesce fuor d’acqua Cranston (nel ruolo del “patriarca” virtuale Zordon). All’inclusivo gruppo di difensori (una prerogativa del marchio) si aggiungerà, come annunciato sui titoli di coda, ancora un elemento nel sequel (vogliono farne 4!). Recitazione stranamente accurata, per un prodotto così. Però il clou della trama segna un calo d’interesse.

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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