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La Gioia ormai perduta di Pippo Del Bono in un ultimo atto al Teatro stabile Biondo di Palermo

L’ ultimo mesto atto de La Gioia; la magnificente opera di Pippo Del Bono dalla scena del teatro stabile Biondo di Palermo, da l’addio al mondo del teatro. Nel profondo sud echeggia la memoria di Bobò ne La Gioia che fu.

La GioiaLe ultime repliche prima che La Gioia, smobilitata, dispaia per sempre. È l’ultimo volo di Pippo Del Bono verso la fuggevole luce sempre cercata, agognata, amata. La fine di questa piccola epopea. Perché di Pippo Del Bono e di certi suoi lavori è necessario accettare l’unicità, quell’esserci nel qui ed ora a dispetto di critiche e lodi, contestazioni ed encomi, salute e malattia.

Non a caso, questa ultima apparizione de La Gioia, viene descritta dallo stesso Del Bono come un rito collettivo, una celebrazione vocativa, più che come uno spettacolo tout court. Sì perché testo, corpo, mimica e danza sono solo visioni lontane di ciò che sulla scena si pose in essere quando la Gioia debuttò nel 2018. Quadri, seppur dai colori ancor vividi, di fantasmi.

Del Bono in scena appare fiaccato nel corpo, claudicante e biascicato nella voce e nell’arte, stravolto nell’anima. Piegato alla sua intima sofferenza eppure ancora, strenuamente protagonista e conduttore assoluto di questa Gioia.

Del Bono recita con dei fogli tra le mani sui quali è scritto il testo. Fogli che però sfuggono al segno e alla concentrazione, lasciandolo smarrito in un labirinto di già detto, già letto. Egli tiene in mano, come uno scettro, il microfono per amplificare una voce che una volta, da sola, mangiava la faccia agli spettatori. Seppur, invero, rapisca ancora quel suo vibrato, adesso non ruggente ma sospiroso, eppur ancora intriso di grandeur. Ma un’altra vocalità gli si sovrappone, quella registrata su nastro che si vorrebbe da ausilio, in lipsync. Il simulacro del Pippo Del Bono attore, concreto, fermo, veemente e suadente, si infrange come un’onda sul Del Bono uomo in scena, trepido, stordito, impacciato, zoppicante e malato.

Una rifrazione che lascia scioccati e confusi gli spettatori e che disperde la potenza primigenia de La Gioia. Lo spettacolo, infatti, abbandona quel viaggio di ricerca e scoperta della Gioia dentro il dolore, l’angoscia, la solitudine, l’amore, la fuggevole felicità, il delirio. Tale viaggio è finito, si è arenato per sempre. Si è spento di certo con la morte di Bobò l’attore feticcio, il figlio in arte, il fulcro di tutta la tenerezza espressa e vissuta dal Del Bono. Colui a cui La Gioia era dedicata.

La compagnia, gli attori, i danzatori ed i mimi di Pippo Del Bono, con finezza leggiadra, assistono e incorniciano il loro maestro drammaturgo  nell’evocazione dello spirito di Bobò.

La GioiaEssi sono maschere lascive e provocatorie del settecento e sagome vibranti ed irrequiete del secolo scorso, sotto luci stroboscopiche. Sono felliniani placidi artisti del circo, che appaiono in pose lievi tra nuvole di raso nero sollevate in balze come un antico sipario e danzano in colorati carillon intorno al Del Bono. È l’attore Dawn Gianluca che si immedesima  e  strugge, femmineo e delicato, sulle note della Maledetta Primavera di Loretta Goggi. Tableau Vivant di commiato a La Gioia che trascolorano nel ricordo di Bobò.

Quella de La Gioia è una sorta di seduta spiritica espansa, riempita dalla registrazione dei ritmati, onomatopeici versi da infante di Bobò, che si fanno largo nel buio (questi, sordo-muto ed analfabeta, prima di essere “adottato in arte” dal De Bono e conoscere la vita, aveva vissuto 47 anni recluso nell’ospedale psichiatrico di Aversa). Del resto, sembra che di questo spettacolo sia rimasta solo l’essenza fluttuante del caro Bobò; che ogni azione perpetrata dal Del Bono sia incentrata a farlo tornare in spirito sulla scena. E che nulla senza di lui, di questo spettacolo, abbia più logica e senso d’esistere. E probabilmente è così. Ed è bene, allora che svanisca.

La Gioia ormai per Del Bono è solo un sempiterno abbraccio tra lui e l’anima bella del compianto amato figlio artistico. Due anime affini che, dentro il momento teatrale, si ritrovano all’interno del giardino dalla esplosiva, barocca, fioritura, creata a scena aperta dalle sapienti mani del fiorista belga Thierry Boutemy. In quel giardino e nello sguardo malinconico di un Pierrot (ancora l’attore Gianluca) forse Del Bono ritrova La Gioia. Tutto il resto  e  artificio, repertorio, astante e vuoto.

 

 

 

 

Enrico Rosolino

Enrico Rosolino apre il suo cuore al mondo delle arti alla tenera età di 2 anni, allorquando assiste alla proiezione cinematografica del lungometraggio animato di Walt Disney, Biancaneve e i sette nani. Ha inizio così un lungo percorso di scoperta e apprendimento nel variegato e sfaccettato mondo delle arti. Da piccolissimo si appassiona alla recitazione. Negli studi pone molta enfasi e impegno nelle materie umanistiche e, dunque, sceglie un liceo Classico. Durante l'adolescenza si diletta nella lettura ed interpretazione -a voce alta- dei classici greci. A 15 anni si avvicina concretamente al mondo della danza. Prende lezioni di balletto classico per 12 anni, e ad anni alterni segue dei corsi di danza moderna e contemporanea. L'arte coreutica diviene la sua più grande passione e territorio prolifico di ricerca. Si laurea allo STAMS di Palermo, e si specializza al DAMS di Bologna. Nel capoluogo emiliano affina e porta a più completa maturazione le sue conoscenze e il suo senso estetico e critico d'ambito teatrale. Viaggia molto, visita Parigi, New York, Londra, Barcellona, Copenaghen, Boston, Atene e molte altre città del mondo godendo di un approccio diretto e sentimentale con le di loro bellezze artistiche e culturali. Vive attualmente a Palermo e coltiva moltissimi interessi nei più svariati contesti. Da giugno del 2021 è iscritto nell'elenco dei giornalisti pubblicisti presso l'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, per Verve si occuperà della rubrica dedicata al Teatro, alla cultura, e agli eventi dal vivo.

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