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Quando un padre. Lacrime facili per il film d’esordio alla regia di Mark Williams

Un evento imprevisto sconvolge le sicurezze di una famiglia. Le attenzioni da prestare al figlio gravemente malato irrompono nella scena apportando sconsolate riflessioni. Ecco la recensione di “Quando un padre”

A Family Man, USA/Canada, 2016  di Mark Williams con Gerard Butler, Gretchen Mol, Maxwell Jenkins, Alison Brie, Willem Dafoe, Alfred Molina, Anupam Kher, Dustin Milligan

quando un padre

Pecca perlopiù di retorica il debutto registico del produttore Williams (da uno script dell’apprezzabile Bill Dubuque), che mira apertamente alla lacrima facile. Butler, alias  Dane, a dir poco cinico cacciatore di teste in una stritolante azienda specializzata, agisce, con il consueto stile granitico, da broker.

Non stima – i segnali sono abilmente disseminati – la bella moglie Elise (Mol, tornata finalmente alla ribalta) e, insieme all’altrettanto feroce collega Lynn (Brie), meno quotata (è una giovane donna…), aspira a ereditare il posto del capo Ed (Dafoe, esaltato e perfetto).

Un percorso serrato e irto di bassezze (pure a scapito di chi cerca un impiego) che incontra un pesante ostacolo: la leucemia di Ryan (Jenkins), maggiore dei tre pargoli del protagonista. Minimizzando a fatica la situazione (una lotta interiore, quella tra l’irriducibile squalo e il genitore responsabile prima che amorevole, che il copione lascia trapelare) e magari compiendo un passo in avanti e due indietro, il nostro “rischia” di accorgersi delle mancanze nei confronti dei suoi cari, del fatuo livore per la consorte, del bisogno di “regredire” all’innocenza del figlio (l’imitazione dei gesti del ragazzino stona ma non è impropria).

Il tòpos della malattia introduce, anzi cela (o suggerisce una sovrapposizione?) la sconsolata riflessione sull’inaridimento selvaggio del mondo del lavoro, già udita ma risoluta. Insomma, un’opera che contiene i difetti, come si sarà capito assai impreziosita dai comprimari (l’attempato disoccupato Molina su tutti).

 

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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