Una verde vena di follia è quella di Maria Antonietta Portulano, passata alla storia come la moglie pazza di Luigi Pirandello. Il calvario della sua esistenza relegata ad un misero rigo dentro le biografie che raccontano dell’insigne marito. E se la letteratura la condanna, è il teatro a trascinarla via dal suo cono d’infamia e d’ombra.
Una verde vena di follia, una crepa densa di muschio e muffa, svetta sul soffitto d’una stanza di manicomio, al di sopra della testa di una donna condannata all’isolamento. Una crepa che, nella mente di codesta donna, diviene un ruscello, via via più ampio, per lei navigabile, un fiume. Un corso d’acqua che, seppur soffocato dagli spugnosi vegetali e dalle fungine escrescenze d’umidità, si fa impetuoso e rapido, gorgogliando d’un inarrestabile desiderio di libertà.
È il fiume in piena cui è avvinta Maria Antonietta Portulano, la signora Pirandello. Passata alla storia come la moglie “pazza” del grande scrittore girgentano, Portulano è una donna che, come una virgola impazzita, schizza fuori dai margini giustificati del celebrato marito.
Maria Antonietta Portulano e la sua verde vena di follia sono l’oltre manica della verità. Materia vivida e aggrovigliata d’un intimo e sofferto epistolario. Un complesso compendio di atmosfere da cui l’autore Alessio Arena si lascia liberamente inspirare nella creazione del testo drammaturgico omonimo. Una narrazione che svela l’inviolato, grida la propria recondita oltraggiosa onestà di pensiero lasciando rovinare al suolo maschere di familiare memoria.
È il teatro a dar voce a colei che nelle biografie del Pirandello è costretta e condannata ad una infamante immobilità di follia. Il teatro che si fa controcanto, misura nuova, rispetto al cinema che nuovamente pone sul podio mainstream del mito il marito Premio Nobel per la letteratura. Un teatro che affida alla regia e all’afflato teatrale, tutto femminile, di Emanuela Giordano il coraggio d’un sentire pervaso dal più genuino istinto, estraneo ad ogni forma di protagonismo ed ipocrisia, anarchico.
A mezzo d’un estenuante intensissimo monologo Maria Antonietta Portulano attraversa le ombre d’una giovinezza trascorsa nel solco della propria esuberante e sfacciata personalità. Si racconta, poi, nel ruolo di moglie, incastrata sotto l’egida di un magno marito. La figura ingombrante di lui a creare attrito con la di lei naturale empatia per i dolori altrui. L’onore al genio dell’uomo pubblico che si riverbera con aura eminente sull’esistenza dell’uomo privato e a cui Portulano oppone la resistenza strenua di gesti veementi, plateali e deflagranti.
La presenza di Maria Antonietta Portulano è fisica tutt’altro che fantasmatica. A conferirle concretezza, vibrazione e tormento la sempre magnifica attrice Mascia Musy.
C’è una eterea dolcezza nella signora Musy, un pregio caratteriale che l’artista adopera per avvicinarsi con rispetto al personaggio della Portulano. Non si ravvisa l’impeto tout court d’un interpretazione accesa, carica d’enfasi e viscerale. Mascia Musy al contrario rende alla Portulano l’espressione cangiante, ora lucida ora impennante, del suo senno. Ne lascia trasparire il quesito, senza requie, su cosa sia davvero la follia. Chi potrebbe davvero arrogarsi il diritto di indicare Maria Antonietta Portulano come folle. Considerando che non di sola biologia è fatto l’essere umano.
Domande di cui il pubblico fa a sua volta esperienza, attenzionando il ritratto lucido, sprezzante, allucinogeno e dolente che Portulano fa di se stessa. Vi ravvisa una donna autentica, che non si vergogna di dare della puttana a Marta Abba, giovane attrice amante del marito mentre questi finge, una domenica in libera uscita dal manicomio, devozione maritale.
A tentare un contrasto stanco, svogliato, talvolta intenerito con la Portulano un’altra donna, una infermiera.
Di questo personaggio, senza nome, quasi del tutto muto ma carico della densità mimica, espressiva e gestuale che si deve a quei coprotagonisti d’effetto e d’urto, è interprete la straordinaria Chiara Muscato. Una donna ostaggio d’un lavoro utile alla sua sussistenza in un mondo dilaniato da guerre e fascismo (“tu hai bisogno di assistermi per vivere”). Una donna che allo stesso tempo esercita un potere coercitivo, sulla illustre paziente assegnatale: vegliando sui suoi flussi di coscienza, imprigionandone le corse sfrenate e le paraboliche linee di pensiero e memoria.
Una verde vena di follia è lo spettacolo che ha aperto, con un buon successo, la stagione 2022-2023 della sala Strehler al teatro Biondo di Palermo.
Forte d’una testualità salda e significativa, la scrittura scenica si presenta priva di patetismi e vittimismi muovendo tuttavia a compassione. Ci si interroga su un personaggio al di là di ciò che di lei si è voluto tramandare. Si prova ad immaginarlo, alterità d’un epoca sorda in un mondo d’oggi che forse ne riconoscerebbe la propulsione liberale e l’intrinseco valore. Uno spettacolo incisivo e permeabile, consigliato.